Fiume agitato, di Joan Didion

Fiume agitato, di Joan Didion
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Il trito sogno americano si è trasformato in un sogno. Fin dalla definizione di cosa fosse quel sogno, apparso per la prima volta nel 1931 per bocca di James Truslow Adams e che affidava una prosperità esponenziale all'abilità e al lavoro esclusivamente, senza altre condizioni, la realtà si è occupata di convertire l'idea in uno slogan Orwelliano.

Almeno nella maggior parte dei casi in cui la prosperità non arrivava e tutti insistevano per mantenere l'apparenza che la prosperità fosse solo un ultimo colpo di fortuna.

Questo romanzo ci riporta al 1959. Abitiamo nella casa della coppia di sposi formata da Everett McClellan e Lily e con uno scatto finale come eco davanti al silenzio completo che si estende attraverso il quartiere residenziale di case replicate e vite simmetriche.

Perché al di là del fatto sinistro, che fa da pretesto al flashback che spiega tutto, il colpo stesso o meglio il grilletto si prolunga verso l'ideologia generale di quella borghesia decisa a prosperare per passare a una nuova conquista sociale, una corsa all'oro che continua tra i quartieri mimetici delle villette a schiera.

La frustrazione americana come la più grande tragedia, tutti convinti e anche quasi rapiti dall'idea che senza prosperità non c'è quasi identità. E senza essere nessuno, vivere diventa quel tragico ideale, soprattutto se hai fatto uno strenuo sforzo per fuggire da quella borghesia che tenta di scalare un muro dove lo slogan recita a lettere gigantesche "Sogno americano dall'altra parte".

Un'idea, uno spazio e un tempo di cui l'autore Joan Didion sa molto. Lei stessa è cresciuta in quella cornice californiana di sogni luminosi come miraggi sotto un sole cocente.

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Fiume agitato, di Joan Didion
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